Ugo Foscolo
Poeta,
nato a Zante nel 1778, di madre greca e di padre veneziano, visse a Venezia e a
Bologna;
combattè
nell'esercito napoleonico e fu in Francia come ufficiale della divisione
italiana dove nel 1813
fu
promosso maggiore. Dal 1816 fino alla morte (Londra 1827) visse in Inghilterra;
le sue ceneri nel 1871
furono
traslate in S.Croce a Firenze.
Nella
sua arte confluisce, accanto a un travolgente impeto romantico, il gusto
dell'estetica neo-classica,
cosicchè
accanto al romanzo epistolare Ultime lettere di Jacopo Ortis e ai primi
sonetti, l'angoscia dell'uomo
più
pacatamente si esprime nella rassegnazione degli ultimi sonetti e nelle odi che
trasfigurano in una purezza
di
forme talvolta marmoree l'ideale di perfetta bellezza che il poeta sognava,
ideale che si tradurrà poi nella mirabile
architettura
delle Grazie. Nei Sepolcri , il suo capolavoro, il poeta celebra,
sia pure in toni romanticamente
eloquenti,
la vittoria eterna della poesia sulla morte e sul tempo.
A LUIGIA PALLAVICINI CADUTA
DA CAVALLO
I
balsami beati
per
te le Grazie apprestino,
per
te i lini odorati
che
a Citerea porgeano
quando
profano spino
le
punse il piè divino
quel
dì che insana empiea
il
sacro Ida di gemiti,
e
col crine tergea
e
bagnava di lagrime
il
sanguinoso petto
al
ciprio giovinetto.
Or
te piangon gli amori,
te
fra le dive liguri
regina
e diva! e fiori
votivi
all'ara portano
d'onde
il grand'arco suona
del
figlio di Latona.
E
te chiama la danza
ove
l'aure portavano
insolita
fragranza,
allor
che, a' nodi indocile,
la
chioma al roseo braccio
ti
fu gentile impaccio.
Tal
nel lavacro immersa
che
fiori, dall'inachio
clivo
cadendo, versa,
Palla
i dall'elmo liberi
crin
su la man che gronda
contien
fuori dell'onda.
Armoniosi
accenti
dal
tuo labbro volavano,
e
dagli occhi ridenti
traluceano
di Venere
i
disdegni e le paci,
la
speme, il pianto, e i baci.
Deh!
perché hai le gentili
forme
e l'ingegno docile
vòlto
a studi virili?
perché
non dell'Aonie
seguivi,
incauta, l'arte,
ma
i ludi aspri di Marte?
Invan
presaghi i venti
il
polveroso agghiacciano
petto
e le reni ardenti
dell'inquieto
alipede,
ed
irritante il morso
accresce
impeto al corso.
Ardon
gli sguardi, fuma
la
bocca, agita l'ardua
testa,
vola la spuma,
ed
i manti volubili
lorda
e l'incerto freno,
ed
il candido seno;
e
il sudor piove, e i crini
sul
collo irti svolazzano;
suonan
gli antri marini
allo
incalzato scalpito
della
zampa, che caccia
polve
e sassi in sua traccia.
Già
dal lito si slancia
sordo
ai clamori e al fremito,
già
già fino alla pancia
nuota…
e ingorde si gonfiano
non
più memori l'acque
che
una dea da lor nacque.
Se
non che il re dell'onde
dolente
ancor d'Ippolito
surse
per le profonde
vie
dal tirreno talamo,
e
respinse il furente
col
cenno onnipotente.
Quei
dal flutto arretrosse
ricalcitrando
e, orribile!
sovra
l'anche rizzose;
scuote
l'arcion, te misera
su
la petrosa riva
strascinando
mal viva.
Pera
chi osò primiero
discortese
commettere
a
infedele corsiero
l'agil
fianco femineo
e
aprì col rio consiglio
nuovo
a beltà periglio!
Chè
or non vedrei le rose
del
tuo volto sì languide;
non
le luci amorose
spiar
ne' guardi medici
speranza
lusinghiera
della
beltà primiera.
Di
Cinzia il cocchio aurato
le
cerve un dì traeano,
ma
al ferino ululato
per
terrore insanirono,
e
dalla rupe etnea
precipitar
la dea.
Gioìan
d'invidio riso
le
abitatrici olimpie,
perché
l'eterno viso,
silenzioso
e pallido,
cinto
apparia d'un velo
a
conviti del cielo:
ma
ben piansero il giorno
che
dalle danze efesie
lieta
facea ritorno
fra
le devote vergini,
e
al ciel salia più bella
di
Febo la sorella.
ALLA AMICA RISANATA
Qual
degli antri marini
l'astro
più caro a Venere
co'
rugiadosi crini
fra
le fuggenti tenebre
appare,
e il suo viaggio
orna
col lume l'eterno raggio;
sorgon
così tutte dive
membra
dall'egro talamo
e
in te beltà rivive,
l'aurea
beltate ond'ebbero
ristoro
unico a' mali
le
nate a vaneggiar menti mortali.
Fiorir
sul caro viso
veggo
la rosa, tornano
i
grandi occhi al sorriso
insidiando;
e vegliano
per
te in novelli pianti
trepide
madri, e sospettose amanti.
Le
ore che danzi meste
ministre
eran de' farmachi,
oggi
l'indica veste,
e
i monili cui gemmano
effigiati
dei
inclito
studio di scalpelli achei,
e
i candidi coturni
e
gli amuleti recano,
onde
a' cori notturni
te,
dea, mirando obliano
i
garzoni le danze,
te
principio d'affanni e di speranze:
o
quando l'arpa adorni
e
co' novelli numeri
e
co' molli contorni
delle
forme che facile
bisso
seconda, e intanto
fra
il basso sospirar vola il tuo canto
più
periglioso; o quando
balli
disegni, e l'agire
corpo
all'aure fidando,
ignoti
vezzi sfuggono
dai
manti, e dal negletto
velo
scomposto sul sommosso petto.
All'agitarti,
lente
cascan
le trecce, nitide
per
ambrosia recente,
mal
fide all'aureo pettine
e
alla rosea ghirlanda
che
or con l'alma salute april ti manda.
Così
ancelle d'Amore
a
te d'intorno volano
invidiate
l'Ore;
meste
le Grazie mirino
chi
la beltà fugace
ti
membra, e il giorno dell'eterna pace.
Mortale
guidatrice
d'oceanine
vergini,
la
parrasia pendice
tenea
la casta Artemide,
e
fea terror di cervi
lungi
fischiar d'arco cidonio i nervi.
Lei
predicò la fama
olimpia
prole; pavido
diva
il mondo la chiama,
e
le sacrò l'elisio
soglio,
ed il certo telo,
e
i monti, e il carro della luna in cielo.
Are
così a Bellona,
un
tempo invitta amazzone,
diè
il vocale Elicona
ella
il cimiero e l'egida
or
contro l'Anglia avara
e
le cavalle ed il furor prepara.
E
quella a cui di sacro
mirto
ti veggo cingere
devota
il simolacro,
che
presiede marmoreo
agli
arcani tuoi lari
ove
a me sol sacerdotessa appari,
regina
fu, Citera
e
Cipro ove perpetua
odora
primavera
regnò
beata, e l'isole
che
col selvoso dorso
rompono
agli Euri e al grande Ionio il corso.
Ebbi
in quel mar la culla,
ivi
erra ignudo spirito
di
faon la fanciulla,
e
se il notturno zeffiro
blando
sui flutti spira,
suonano
i liti un lamentar di lira:
ond'io
pieno del nativo
aer
sacro, su l'itala
grave
cetra derivo
per
te le corde eolie,
e
avrai divina i voti
fra
gl'inni miei delle insubri nepoti.
ALLA SERA
Forse
perché della fatal quiete
tu
se l'immago a me sì cara vieni
o
sera! E quando ti corteggian liete
le
nubi estive e i zeffiri sereni,
e
quando dal nevoso aere inquiete
tenebre
e lunghe all'universo meni
sempre
scendi invocata, e le secrete
vie
del mio cor soavemente tieni.
Vagar
mi fai co' miei pensier sull'orme
che
vanno al nulla eterno; e intanto fugge
questo
reo tempo, e van con lui le torme
delle
cure onde meco egli si strugge;
e
mentre io guardo la tua pace, dorme
quello
spirto guerrier ch'entro mi rugge.
A ZACINTO
Né
più mai toccherò le sacre sponde
ove
il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto
mia, che te specchi nell'onde
del
greco mar da cui vergine nacque
Venere,
e fea quelle isole feconde
col
suo primo sorriso, onde non tacque
le
tue limpide nubi e le tue fronde
l'inclito
verso di colui che l'acque
cantò
fatali, ed il diverso esiglio
per
cui bello di fama e di sventura
baciò
la sua petrosa Itaca Ulisse.
Tu
non altro che il canto avrai del figlio,
O
materna mia terra; a noi prescrisse
Il
fato illacrimata sepoltura.
DEI SEPOLCRI
A Ippolito Pindemonte
Deorun manium iura sancta
sunto.
XII Tab.
All'ombra
dei cipressi e dentro l'urne
confortate
di pianto è forse il sonno
della
morte men duro? Ove più il sole
per
me alla terra non fecondi questa
bella
d'erbe famiglia e d'animali,
e
quando vaghe di lusinghe innanzi
a
me non danzeran l'ore future,
né
da te, dolce amico, udrò più il verso
e
la mesta armonia che lo governa,
né
più nel cor mi parlerà lo spirto
delle
vergini muse e dell'amore
unico
spirto a mia vita raminga,
qual
fia ristoro a' dì perduti un sasso
che
distingua le mie dalle infinite
ossa
che in terra e in mar semina morte?
Vero
è ben, Pindemonte! Anche la speme,
ultima
dea, fugge i sepolcri; e involve
tutte
cose l'oblio nella sua notte;
e
una forza operosa le affatica
di
moto in moto; e l'uomo e le sue tombe
e
l'estreme sembianze e le reliquie
della
terra e del ciel traveste il tempo.
Ma
perché pria del tempo a sé il mortale
invidierà
l'illusion che spento
pur
lo sofferma al limitar di Dite?
Non
vive ei forse anche sotterra, quando
gli
sarà muta l'armonia del giorno,
se
può destarla con soavi cure
nella
mente de' suoi? Celeste è questa
corrispondenza
d'armoniosi sensi,
celeste
dote è negli umani; e spesso
per
lei si vive con l'amico estinto,
e
l'estinto con noi, se pia la terra
che
lo raccolse infante e lo nutriva,
nel
suo grembo materno ultimo asilo
porgendo,
sacre le reliquie renda
dall'insultar
de' nembi e dal profano
piede
del vulgo, e serbi un sasso il nome,
e
di fiori odorata arbore amica
le
ceneri di molli ombre consoli.
Sol
chi non lascia eredità d'affetti
poca
gioia ha dell'urna; e se pur mira
dopo
l'esequie, errar vede il suo spirto
fra
'l compianto de' templi acherontei,
o
ricovrarsi sotto le grandi ale
del
perdono d'Iddio: ma la sua polve
lascia
alle ortiche di deserta gleba
ove
né donna innamorata preghi,
né
passeggier solingo oda il sospiro
che
dal tumulo a noi manda Natura.
Pur
nuova legge impone oggi i sepolcri
fuor
de' guardi pietosi, e il nome a' morti
contende.
E senza tomba giace il tuo
sacerdote,
o Talia, che a te cantando
nel
suo povero tetto educò un lauro
con
lungo amore, e t'appendea corone,
e
tu gli ornavi del tuo riso i canti
che
il lombardo pungean Sardanapalo,
cui
solo è dolce il muggito de' buoi
che
dagli antri abduani e dal Ticino
lo
fan d'ozi beato e di vivande.
O
bella musa, ove sei tu? Non sento
spirar
l'ambrosia, indizio del tuo nume,
fra
queste piante ov'io siedo e sospiro
il
mio tetto materno. E tu venivi
e
sorridevi a lui sotto quel tiglio
ch'or
con dimesse frondi va fremendo
perché
non copre, o dea, l'urna del vecchio
cui
già di calma era cortese e d'ombre.
Forse
tu fra plebei tumuli guardi
vagolando,
ove dorma il sacro capo
del
tuo Parini? A lui non ombre pose
tra
le sue mura la città, lasciva
d'evirati
cantori allettatrice,
non
pietra, non parola; e forse l'ossa
col
mozzo capo gl'insanguina il ladro
che
lasciò sul patibolo i delitti.
Senti
raspar fra le macerie e i bronchi
la
derelitta cagna ramingando
su
le fosse e famelica ululando;
e
uscir del teschio, ove fuggia la Luna,
l'upupa,
e svolazzar su per le croci
sparse
per la funerea campagna,
e
l'immonda accusar con luttuoso
singulto
i rai di che son pie le stelle
alle
obbliate sepolture. Indarno
sul
tuo poeta, o dea, preghi rugiade
dalla
squallida notte. Ahi! su gli estinti
non
sorge fiore, ove non sia d'umane
lodi
onorato e d'amoroso pianto.
Dal
dì che nozze e tribunali ed are
dier
alle umane belve essere pietose
di
se stesse e d'altrui, toglieano i vivi
all'etere
maligno ed alle fere
i
miserabili avanzi che Natura
con
veci eterne a sensi altri destina.
Testimonianza
a' fasti eran le tombe,
ed
are a' figli; e uscian quindi i responsi
de'
domestici Lari, e fu temuto
su
la polve degli avi il giuramento;
religion
che con diversi riti
le
virtù patrie e la pietà congiunta
tradussero
per lungo ordine danni.
Non
sempre i sassi sepolcrali a'templi
fean
pavimento; né agl'incensi avvolto
de'
cadaveri il lezzo i supplicanti
contaminò;
né le città fur meste
d'effigiati
scheletri: le madri
balzan
ne' sonni esterrefatte, e tendono
nude
le braccia su l'amato capo
del
lor caro lattante onde nol desti
il
gemer lungo di persona morta
chiedente
la venal prece agli eredi
dal
santuiario. Ma cipressi e cedri
di
puri effluvi i zefiri impregnando
perenne
verde protendean su l'urne
per
memoria perenne, e preziosi
vasi
accogliean le lacrime votive.
Rapian
gli amici una favilla al sole
a
illuminar la sotterranea notte,
perché
gli occhi dell'uom cercan morendo
il
sole; e tutti l'ultimo sospiro
mandano
i petti alla fuggente luce.
Le
fontane versando acque lustrali
amaranti
educavano e viole
sulla
funebre zolla; e chi sedea
a
libar latte e a raccontar sue pene
ai
cari estinti, una fragranza intorno
sentia
qual d'aura de' beati Elisi.
Pietosa
insania, che fa cari gli orti
de'
suburbani avelli alle britanne
vergini
dove le conduce amore
della
perduta madre, ove clementi
pregaro
i Geni del ritorno al prode
che
tronca fè la triofata nave
del
maggior pino, e si scavò la bara.
Ma
ove dorme il furor d'inclite gesta
e
sien ministri al viver civile
l'opulenza
e il tremore, inutil pompa,
e
inaugurate immagini dell'Orco
sorgon
cippi e marmorei monumenti.
Già
il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo,
decoro
e mente al bello italo regno,
nelle
adulate regge ha sepoltura
già
vivo, e i stemmi unica laude. A noi
morte
apparecchi riposato albergo,
ove
una volta la fortuna cessi
dalle
vendette, e l'amistà raccolga
non
di tesori eredità, ma caldi
sensi
e di liberal carme l'esempio.
A
egregie cose il forte animo accendono
l'urne
de' forti, o Pindemonte; e bella
e
santa fanno al peregrin la terra
che
la ricetta. Io quando il monumento
vidi
ove posa il corpo di quel grande
che
temprando lo scettro a' regnatori
gli
allor ne sfronda, ed alla genti svela
di
che lagrime grondi e di che sangue;
e
l'arca di cului che nuovo Olimpo
alzò
in Roma a' Celesti; e di chi vide
sotto
l'etereo padiglion rotarsi
più
mondi, e il sole irradiarli immoto,
onde
all'Anglo che tanta ala vi stese
sgombrò
primo le vie del firmamento;
Te
beata, gridai, per le felci
aure
pregne di vita, e pe' lavacri
che
da' suoi gioghi a te versa Appennino!
Lieta
dell'aer tuo veste la Luna
di
luce limpidissima i tuoi colli
per
vendemmia festanti, e le convalli
popolate
di case e d'oliveti
mille
di fiori al ciel mandano incensi:
e
tu prima, Firenze, udivi il carme
che
allegrò l'ira al Ghibellin fuggiasco,
e
tu i cari parenti e l'idioma,
desti
a quel dolce di Calliope labbro
che
Amore in Grecia nudo e nudo in Roma
d'un
velo candidissimo adornando,
rendea
nel grembo a Venere celeste.
Ma
più beata che in un tempio accolte
serbi
l'itale glorie, uniche forse
da
che le mal vietate Alpi e l'alterna
onnipotenza
delle umane sorti
armi
e sostanze t'invadeano ed are
e
patria e, tranne la memoria, tutto.
Che
ove speme di gloria agli animosi
intelletti
rifulga ed all'Italia,
quindi
trarrem gli auspici. E a questi marmi
venne
spesso Vittorio ad ispirarsi.
Irato
a' patrii numi, errava muto
ove
Arno è più deserto, i campi e il cielo
desioso
mirando; e poi che nullo
vivente
aspetto gli molcea la cura,
qui
posava l'austero; e avea sul volto
il
pallor della morte e della speranza.
Con
questi grandi abita eterno, e l'ossa
fremono
amor di patria. Ah sì! da quella
religiosa
pace un nume parla:
e
nutria contro a' Persi in Maratona,
ove
Atene sacrò tombe a' suoi prodi,
la
virtù greca e l'ira. Il navigante
che
veleggiò quel mar sotto l'Eubea,
vedea
per l'ampia oscurità scintille
balenar
d'elmi e di cozzanti brandi,
fumar
le pire igneo vapor, corrusche
d'armi
ferree vedea larve guerriere
cercar
la pugna; e all'orror de' notturni
silenzi
si spandea lungo ne' campi
di
falangi un tumulto e un suon di tube,
e
un incalzar di cavalli accorrenti
scalpitanti
sugli elmi a' moribondi,
e
pianto, ed inni, e delle Parche il canto.
Felice
te che il regno ampio de' venti,
Ippolito,
a' tuoi verdi anni correvi!
e
se il piloto ti drizzò l'antenna
oltre
l'isole egee, d'antichi fatti
certo
udisti suonar dell'Ellesponto
i
liti, e la marea mugghiar portando
alle
prode retee l'armi d'Acchille
sovra
l'ossa Aiace: a' generosi
giusta
di glorie dispensiera è morte;
né
senno astuto, né favor di regi
all'Itaco
le spoglie ardue serbava,
chè
alla poppa raminga le ritolse
l'onda
incitata dagl'inferni dei.
E
me che i tempi ed il desio d'onore
fan
per diversa gente ir fuggitivo,
me
ad evocar gli eroi chiamin le Muse
del
mortale pensiero animatrici.
Siedon
custodi de' sepolcri, e quando
il
tempo con sue fredde ale vi spazza
fin
le rovine, le Pimplèe fan lieti
di
lor canto i deserti, e l'armonia
vince
di mille secoli il silenzio.
Ed
oggi nella Tròade inseminata
eterno
splende a' peregrini un loco,
eterno
per la ninfa a cui fu sposo
Giove,
ed a Giove diè Dardano figlio
onde
fur Troia e Assàranco e i cinquanta
talami
e il regno della Giulia gente.
Però
che quando Elettra udì la Parca
che
lei dalle vitali aure del giorno
chiamava
a' cori d'Elisio, a Giove
mandò
il voto supremo: e se, diceva,
a
te fur care le mie chiome e il viso
e
le dolci vigilie, e non mi assente
premio
miglior la volontà de' fati,
la
morta amica almen guarda dal cielo
onde
d'Elettra tua resti la fama.
Così
orando moriva. E ne gemea
l'Olimpo;
e l'immortal capo accennando
piovea
dai crini ambrosia su la ninfa,
e
fè sacro quel corpo e la sua tomba.
Ivi
posò Erittonio, e dorme il giusto
cenere
d'Ilo; ivi l'iliache donne
sciogliean
le chiome, indarno ahi! deprecando
da'
lor mariti l'imminente fato;
ivi
Cassandra, allor che il nume in petto
le
fea parlar di Troia il dì mortale,
venne;
e all'ombre cantò carme amoroso,
e
guidava i nepoti, e l'amoroso
apprendeva
lamento ai giovinetti.
E
dicea sospirando: oh, se mai d'Argo,
ove
al Tidìde e di Laerte al figlio
pascerete
i cavalli, a voi permetta
ritorno
il cielo, invan la patria vostra
cercherete!
Le mura opra di Febo
sotto
le lor reliquie fumeranno.
Ma
i Penati di Troia avranno stanza
in
queste tombe; chè de' numi è dono
servar
nelle miserie altero nome.
E
voi, palme e cipressi che le nuore
piantan
di Priamo, e crescerete ahi presto!
di
vedovili lagrime innaffiati,
proteggete
i miei padri: e chi la scure
asterrà
pio dalle devote frondi
men
si dorrà di consanguinei lutti
e
santamente toccherà l'altare.
Proteggete
i miei padri. Un dì vedrete
mendico
un cieco errar sotto le vostre
antichissime
ombre, e brancolando
penetrar
negli avelli, e abbracciar l'urne,
e
interrogarle. Gemeranno gli antri
secreti,
e tutta narrerà la tomba
Ilio
raso due volte e due risorto
splendidamente
su le mute vie
per
far più bello l'ultimo trofeo
ai
fatali Pelidi. Il sacro vate,
placando
quelle afflitte alme col canto,
i
prenci argivi eternerà per quante
abbraccia
terre il gran padre Ocèano.
E
tu onore di pianti, Ettore, avrai
ove
fia santo e lagrimato il sangue
per
la patria versato, e finchè il Sole
risplenderà
sulle sciagure umane.
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