Giacomo Leopardi
Nacque
a Recanati. Primogenito del conte Monaldo,
Crebbe
nell'ambiente retrivo
Della
piccola nobiltà di provincia che lo fece non poco soffrire.
Avviato
agli studi dal padre e da ecclesiastici, proseguì da solo
Con
l'aiuto di una ricca biblioteca paterna:
Furono"sette
anni di studio matto e disperatissimo"
Che
logorarono irrimediabilmente la sua salute.
Un
tentativo di fuga sventato, amori infelici
E
una malattia agli occhi gli causarono una forte depressione.
Dal
'22 lasciò il piccolo "borgo selvaggio":
Fu
a Roma, Milano, Bologna, Pisa, Firenze.
Qui
conobbe l'esule napoletano Antonio Ranieri
Che
divenne suo grande amico.
Con
lui, nel '33, si trasferì a Napoli, dove si spense nel 1837.
IL
PASSERO SOLITARIO
D'in
su la vetta della torre antica,
Passero
solitario, alla campagna
Cantando
vai finchè non more il giorno;
Ed
erra l'armonia per questa valle.
Primavera
dintorno
Brilla
nell'aria, e per li campi esulta,
Sì
ch'a mirarla intenerisce il core.
Odi
greggi belar, muggire armenti;
Gli
altri augelli contenti, a gara insieme
Per
lo libero ciel fan mille giri,
Pur
festeggiando il lor tempo migliore:
Tu
pensoso in disparte il tutto miri;
Non
compagni, non voli,
Non
ti cal d'allegria, schivi gli spassi;
Canti,
e così trapassi
Dell'anno
e di tua vita il più bel fiore.
Oimè,
quanto somiglia
Al
tuo costume il mio! Sollazzo e riso,
Della
novella età dolce famiglia,
E
te german di giovinezza, amore,
Sospiro
acerbo de' provetti giorni,
Non
curo, io non so come; anzi da loro
Quasi
fuggo lontano;
Quasi
romito, e strano
Al
mio loco natio,
Passo
del viver mio la primavera.
Questo
giorno ch'omai cede alla sera,
Festeggiar
si costuma al nostro borgo.
Odi
per lo sereno un suon di squilla,
Odi
spesso un tonar di ferree canne,
Che
rimbomba lontan di villa in villa.
Tutta
vestita a festa
La
gioventù del loco
Lascia
le case, e per le vie si spande;
E
mira ed è mirata, e in cor s'allegra.
Io
solitario in questa
Rimota
parte alla campagna uscendo,
Ogni
diletto e gioco
Indugio
in altro tempo: e intanto il guardo
Steso
nell'aria aprica
Mi
fere il sol che tra lontani monti,
Dopo
il giorno sereno,
Cadendo
si dilegua, e par che dica
Che
la beata gioventù vien meno.
Tu,
solingo augellin, venuto a sera
Del
viver che daranno a te le stelle,
Certo
del tuo costume
Non
ti dorrai; che di natura è frutto
Ogni
vostra vaghezza.
A
me, se di vecchiezza
La
detestata soglia
Evitar
non impetro,
Quando
muti questi occhi all'altrui core,
E
lor fia voto il mondo, e il dì futuro
Del
dì presente più noioso e tetro,
Che
parrà di tal voglia?
Che
di quest'anni miei? Che di me stesso?
Ahi
pentirommi, e spesso,
Ma
sconsolato, volgerommi indietro.
L'INFINITO
Sempre
caro mi fu quest'ermo colle,
E
questa siepe, che da tanta parte
Dell'ultimo
orizzonte il guardo esclude.
Ma
sedendo e mirando, interminati
Spazi
al di là di quella, e sovrumani
Silenzi,
e profondissima quiete
Io
nel pensier mi fingo; ove per poco
Il
cor non si spaura. E come il vento
Odo
stormir tra queste piante, io quello
Infinito
silenzio a questa voce
Vo
comparando: e mi sovvien l'eterno,
E
le morte stagioni, e la presente
E
viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità
s'annega il pensier mio:
E
il naufragar m'è dolce in questo mare.
LA
QUIETE DOPO LA TEMPESTA
Passata
è la tempesta:
Odo
augelli far festa, e la gallina,
Tornata
in su la via,
Che
ripete il suo verso. Ecco il sereno
Rompe
là da ponente, alla montagna;
Sgombrasi
la campagna,
E
chiaro nella valle il fiume appare.
Ogni
cor si rallegra, in ogni lato
Risorge
il romorio
Torna
il lavoro usato.
L'artigiano
a mirar l'umido cielo,
Con
l'opra in man, cantando,
Fassi
in su l'uscio; a prova
Vien
for la femminetta a còr dell'acqua
Della
novella piova;
E
l'erbaiuol rinnova
Di
sentiero in sentiero
Il
grido giornaliero.
Ecco
il sol che ritorna, ecco sorride
Per
li poggi e le ville. Apre i balconi,
Apre
terrazzi e logge la famiglia:
E,
dalla via corrente, odi lontano
Tintinnio
di sonagli; il carro stride
Del
passegger che il suo cammin ripiglia.
Si
rallegra ogni core.
Sì
dolce, sì gradita
Quand'è,
com'or, la vita?
Quando
con tanto amore
L'uomo
a' suoi studi intende?
O
torna all'opre? o cosa nova imprende?
Quando
de' mali suoi men si ricorda?
Piacer
figlio d'affanno;
Gioia
vana, ch'è frutto
Del
passato timore, onde si scosse
E
paventò la morte
Chi
la vita abborria;
Onde
in lungo tormento,
Fredde,
tacite, smorte,
Sudàr
le genti e palpitàr, vedendo
Mossi
alle nostre offese
Folgori,
nembi e vento.
O
natura cortese,
Son
questi i doni tuoi,
Questi
i diletti sono
Che
tu porgi ai mortali. Uscir di pena
E'
diletto fra noi.
Pene
tu spargi a larga mano; il duolo
Spontaneo
sorge: e di piacer, quel tanto
Che
per mostro e miracolo talvolta
Nasce
d'affanno, è gran guadagno. Umana
Prole
cara agli eterni! assai felice
Se
respirar ti lice
D'alcun
dolor: beata
Se
te d'ogni dolor morte risana.
IL
SABATO DEL VILLAGGIO
La
donzelletta vien dalla campagna,
In
sul calar del sole,
Col
suo fascio dell'erba; e reca in mano
Un
mazzolin di rose e di viole,
Onde,
siccome suole,
Ornare
ella si appresta
Dimani,
al dì di festa, il petto e il crine.
Siede
con le vicine
Su
la scala a filar la vecchierella,
Incontro
là dove si perde il giorno;
E
novellando vien del suo buon tempo,
Quando
ai dì della festa ella si ornava,
Ed
ancor sana e snella
Solea
danzar la sera intra di quei
Ch'ebbe
compagni dell'età più bella.
Già
tutta l'aria imbruna,
Torna
azzurro il sereno, e tornan l'ombre
Giù
da' colli e da' tetti,
Al
biancheggiar della recente luna.
Or
la squilla da' segno
Della
festa che viene;
Ed
a quel suon diresti
Che
il cor si riconforta.
I
fanciulli gridando
Su
la piazzuola in frotta,
E
qua e là saltando,
Fanno
un lieto romore:
E
intanto riede alla sua parca mensa,
Fischiando,
il zappatore,
E
seco pensa al dì del suo riposo.
Poi
quando intorno è spenta ogni altra face,
E
tutto l'altro tace,
Odi
il martel picchiare, odi la sega
Del
legnaiuol, che veglia
Nella
chiusa bottega alla lucerna,
E
s'affretta, e s'adopra
Di
fornir l'opra anzi il chiarir dell'alba.
Questo
di sette è il più gradito giorno,
Pien
di speme e di gioia:
Diman
tristezza e noia
Recheran
l'ore, ed al travaglio usato
Ciascuno
in suo pensier farà ritorno.
Garzoncello
scherzoso,
Cotesta
età fiorita
E'
come un giorno d'allegrezza pieno,
Giorno
chiaro, sereno,
Che
precorre alla festa di tua vita.
Godi,
fanciullo mio; stato soave,
Stagion
lieta è cotesta.
Altro
dirti non vo'; ma la tua festa
Ch'anco
tardi a venir non ti sia grave.
CANTO
NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DELL'ASIA
Che
fai tu, luna, in ciel ? dimmi, che fai,
Silenziosa
luna?
Sorgi
la sera, e vai,
Contemplando
i deserti; indi ti posi.
Ancor
non sei tu paga
Di
riandare i sempiterni calli ?
Ancor
non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di
mirar queste valli ?
Somiglia
alla tua vita
La
vita del pastore.
Sorge
in sul primo albore
Move
la greggia oltre pel campo, e vede
Greggi,
fontane ed erbe;
Poi
stanco si riposa in su la sera:
Altro
mai non ispera.
Dimmi,
o luna: a che vale
Al
pastor la sua vita,
La
vostra vita a voi? dimmi: ove tende
Questo
vagar mio breve,
Il
tuo corso immortale?
Vecchierel
bianco,infermo,
Mezzo
vestito e scalzo,
Con
gravissimo fascio in su le spalle,
Per
mantagna e per valle,
Per
sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al
vento, alla tempesta, e quando avvampa
L'ora,
e quando poi gela,
Corre
via,corre, anela,
Varca
torrenti e stagni,
Cade,
risorge, e più e più s'affretta,
Senza
posa o ristoro,
Lacero,
sanguinoso; infin ch'arriva
Colà
dove la via
E
dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso
orrido,immenso,
Ov'ei
precipitando, il tutto oblia.
Vergine
luna, tale
È
la vita mortale.
Nasce
l'uomo a fatica,
Ed
è rischio di morte il nascimento.
Prova
pena e tormento
Per
prima cosa; e in sul principio stesso
La
madre e il genitore
Il
prende a consolar dell'esser nato.
Poi
che crescendo viene,
L'uno
e l'altro il sostiene, e via pur sempre
Con
atti e con parole
Studiasi
fargli core,
E
consolarlo dell'umano stato:
Altro
ufficio più grato
Non
si fa da parenti alla lor prole.
Ma
perché dare al sole,
Perché
reggere in vita
Chi
poi di quella consolar convenga ?
Se
la vita è sventura,
Perché
da noi si dura ?
Intatta
luna, tale
È
lo stato mortale.
Ma
tu mortal non sei,
E
forse del mio dir poco ti cale.
Pur
tu, solinga, eterna peregrina,
Che
sì pensosa sei, tu forse intendi,
Questo
viver terreno,
Il
patir nostro, il sospirar, che sia;
Che
sia questo morir, questo supremo
Scolorar
del sembiante,
E
perir dalla terra, e venir meno
Ad
ogni usata, amante compagnia.
E
tu certo comprendi
Il
perché delle cose, e vedi il frutto
Del
mattin, della sera,
Del
tacito, infinito andar del tempo.
Tu
sai, tu certo, a qual suo dolce amore
Rida
la primavera,
A
chi giovi l'ardore, e che procacci
Il
verno co' suoi ghiacci.
Mille
cose sai tu, mille discopri,
Che
son celate al semplice pastore.
Spesso
quand'io ti miro
Star
così muta in sul deserto piano,
Che,
in suo giro lontano, al ciel confina;
Ovver
con la mia greggia
Seguirmi
viaggiando a mano a mano;
E
quando miro in cielo arder le stelle;
Dico
fra me pensando:
A
che tante facelle ?
Che
fa l'aria infinita, e quel profondo
Infinito
seren ? che vuol dir questa
Solitudine
immensa ? ed io che sono ?
Così
meco ragiono: e della stanza
Smisurata
e superba,
E
dell' innumerabile famiglia;
Poi
di tanto adoprar, di tanti moti
D'ogni
celeste, ogni terrena cosa,
Girando
senza posa,
Per
tornar sempre là donde son mosse;
Uso
alcuno, alcun frutto
Indovinar
non so. Ma tu per certo,
Giovinetta
immortal, conosci il tutto.
Questo
io conosco e sento,
Che
degli eterni giri,
Che
dell'esser mio frale,
Qualche
bene o contento
Avrà
fors' altri; a me la vita è male.
O
greggia mia che posi, oh te beata,
Che
la miseria tua, credo, non sai !
Quanda
invidia ti porto !
Non
sol perché d'affanno
Quasi
libera vai;
Ch'ogni
stento, ogni danno,
Ogni
estremo timor subito scordi;
Ma
più perché giammai tedio non provi.
Quando
tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,
Tu
se' queta e contenta;
E
gran parte dell'anno
Senza
noia consumi in quello stato.
Ed
io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
E
un fastidio m'ingombra
La
mente, ed uno spron quasi mi punge
Sì
che, sedendo, più che mai son lunge
Da
trovar pace o loco.
E
pur nulla non bramo,
E
non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel
che tu goda o quanto,
Non
so già dir; ma fortunata sei.
Ed
io godo ancor poco,
O
greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se
tu parlar sapessi, io chiederei:
Dimmi:
perché giacendo
A
bell'agio, ozioso,
S'appaga
ogni animale;
Me,
s'io giaccio in riposo, il tedio assale ?
Forse
s'avess'io l'ale
Da
volar su le nubi,
E
noverar le stelle ad una ad una,
O
come il tuono errar di giogo in giogo,
Più
felice sarei, dolce mia greggia,
Più
felice sarei, candida luna.
O
forse erra dal vero,
Mirando
all'altrui sorte, il mio pensiero:
Forse
in qual forma, in quale
Stato
che sia, dentro covile o cuna,
È
funesto a chi nasce il dì natale.
LA
GINESTRA O IL FIORE DEL DESERTO
E
gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce
GIOVANNI,
III, 19
Qui
su l'arida schiena
Del
formidabil monte
Sterminator
Vesevo,
La
qual null'altro allegra arbor né fiore,
Tuoi
cespi solitari intorno spargi,
Odorata
ginestra,
Contenta
dei deserti. Anco ti vidi
De'
tuoi steli abbellir l'erme contrade
Che
cingon la cittade
La
qual fu donna de' mortali un tempo,
E
del perduto impero
Par
che col grave e taciturno aspetto
Faccian
fede e ricordo al passeggero.
Or
ti riveggo in questo suol, di tristi
Lochi
e dal mondo abbandonati amante,
E
d'afflitte fortune ognor compagna.
Questi
campi cosparsi
Di
ceneri infeconde, e ricoperti
Dell'impietrata
lava,
Che
sotto i passi al peregrin risona;
Dove
s'annida e si contorce al sole
La
serpe, e dove al noto
Cavernoso
covil torna il coniglio;
Fur
liete ville e colti,
E
biondeggiar di spiche, e risonaro
Di
muggito d'armenti;
Fur
giardini e palagi,
Agli
ozi de' potenti
Gradito
ospizio; e fur città famose,
Che
coi torrenti suoi l'altero monte
Dall'ignea
bocca fulminando oppresse
Con
gli abitanti insieme. Or tutto intorno
Una
ruina involve;
Dove
tu siedi, o fior gentile, e quasi
I
danni altrui commiserando, al cielo
Di
dolcissimo odor mandi un profumo,
Che
il deserto consola. A queste piagge
Venga
colui che d'esaltar con lode
Il
nostro stato ha in uso, e vegga quanto
E'
il gener nostro in cura
All'amante
natura. E la possanza
Qui
con giusta misura
Anco
estimar potrà dell'uman seme,
Cui
la dura nutrice, ov'ei men teme,
Con
lieve moto in un momento annulla
In
parte, e può con moti
Poco
men lieve ancor subitamente
Annichilare
in tutto.
Dipinte
in queste rive
Son
dell'umana gente
Le
magnifiche sorti e progressive.
Qui
mira e qui ti specchia,
Secol
superbo e sciocco,
Che
il calle insino allora
Dal
risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti,
e volti addietro i passi,
Del
ritornar ti vanti,
E
procedere il chiami.
Al
tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,
Di
cui lor sorte rea padre ti fece,
Vanno
adulando, ancora
Ch'a
ludibrio talora
T'abbian
fra se. Non io
Con
tal vergogna scenderò sotterra;
Ma
il disprezzo piuttosto che si serra
Di
te nel petto mio,
Mostrato
avrò quanto si possa aperto:
Ben
ch'io sappia che obblio
Preme
chi troppo all'età propria increbbe.
Di
questo mal, che teco
Mi
fia comune, assai finor mi rido.
Libertà
vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi
di novo il pensiero,
Sol
per cui risorgemmo
Della
barbarie in parte, e per cui solo
Si
cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida
i pubblici fati.
Così
ti spiacque il vero
Dell'aspra
sorte e del depresso loco
Che
natura ci diè. Per questo il tergo
Vigliaccamente
rivolgesti al lume
Che
il fe palese: e, fuggitivo, appelli
Vil
chi lui segue, e solo
Magnanimo
colui
Che
se schernendo o gli altri, astuto o folle,
Fin
sopra gli astri il mortal grado estolle.
Uom
di povero stato e membra inferme,
Che
sia dell'alma generoso ed alto,
Non
chiama se né stima
Ricco
d'or né gagliardo,
E
di splendida vita o di valente
Persona
infra la gente
Non
fa risibil mostra;
Ma
se di forza e di tesor mendico
Lascia
parer senza vergogna, e noma
Parlando,
apertamente, e di sue cose
Fa
stima al vero uguale.
Magnanimo
animale
Non
credo io già, ma stolto,
Quel
che nato a perir, nutrito in pene,
Dice,
a goder son fatto,
E
di fetido orgoglio
Empie
le carte, eccelsi fati e nove
Felicità,
quali il ciel tutto ignora,
Non
pur quest'orbe, promettendo in terra
A
popoli che un'onda
Di
mar commosso, un fiato
D'aura
maligna, un sotterraneo crollo
Disgrugge
sì, che avanza
A
gran pena di lor la rimembranza.
Nobil
natura è quella
Che
a sollevar s'ardisce
Gli
occhi mortali incontra
Al
comun fato, e che con franca lingua,
Nulla
al ver detraendo,
Confessa
il mal che ci fu dato in sorte,
E
il basso stato e frale;
Quella
che grande e forte
Mostra
se nel soffrir, né gli odii e l'ire
Fraterne,
ancor più gravi
D'ogni
altro danno, accresce
Alle
miserie sue, l'uomo incolpando
Del
suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che
veramente è rea, che de' mortali
Madre
è di parto, e di voler matrigna.
Costei
chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta
esser pensando,
Siccome
è il vero, ed ordinata in pria
L'umana
compagnia,
Tutti
fra se confederati estima
Gli
uomini, e tutti abbraccia
Con
vero amor, porgendo
Valida
e pronta ed aspettando aita
Negli
alterni perigli e nelle angosce
Della
guerra comune. Ed alle offese
Dell'uomo
armar la destra, e laccio porre
Al
vicino ed inciampo,
Stolto
crede così qual fora in campo
Cinto
d'oste contraria, in sul più vivo
Incalzar
degli assalti,
Gl'inimici
obbliando, acerbe gare
Imprender
con gli amici,
E
sparger fuga e fulminar col brando
Infra
i propri guerrieri.
Così
fatti pensieri
Quando
fien, come fur, palesi al volgo,
E
quell'orror che primo
Contra
l'empia natura
Strinse
i mortali in social catena,
Fia
ricondotto in parte
Da
verace saper, l'onesto e il retto
Conversar
cittadino,
E
giustizia e pietade, altra radice
Avranno
allor che non superbe fole,
Ove
fondata probità del volgo
Così
star suole in piede
Quale
star può quel ch'ha in error la sede.
Sovente
in queste rive,
Che,
desolate, a bruno
Veste
il flutto indurato, e par che ondeggi,
Seggo
la notte; e su la mesta landa
In
purissimo azzurro
Veggo
dall'alto fiammeggiar le stelle,
Cui
di lontan fa specchio
Il
mare, e tutto di scintille in giro
Per
lo vòto seren brillare il mondo.
E
poi che gli occhi a quelle luci appunto,
Ch'a
lor sembrano un punto,
E
sono immense, in guisa
Che
un punto a petto a lor son terra e mare
Veracemente;
a cui
L'uomo
non pur, ma questo
Globo
ove l'uomo è nulla,
Sconosciuto
è del tutto; e quando miro
Quegli
ancor più senz'alcun fin remoti
Nodi
quasi di stelle,
Ch'a
noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
E
non la terra sol, ma tutte in uno,
Del
numero infinite e della mole,
Con
l'aureo sole insiem, le nostre stelle
O
sono ignote, o così paion come
Essi
alla terra, un punto
Di
luce nebulosa; al pensier mio
Che
sembri allora, o prole
Dell'uomo?
E rimembrando
Il
tuo stato quaggiù, di cui fa segno
Il
suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,
Che
te signora e fine
Credi
tu data al tutto, e quante volte
Favoleggiar
ti piacque, in questo oscuro
Granel
di sabbia, il qual di terra ha nome,
Per
tua cagion, dell'universe cose
Scender
gli autori, e conversar sovente
Co'
tuoi piacevolmente, e che i desiri
Sogni
rinnovellando, ai saggi insulta
Fin
la presente età, che in conoscenza
Ed
in civil costume
Sembra
tutte avanzar; qual moto allora,
Mortal
prole infelice, o qual pensiero
Verso
te finalmente il cor m'assale?
Non
so se il riso o la pietà prevale.
Come
d'arbor cadendo un piccol pomo,
Cui
là nel tardo autunno
Maturità
senz'altra forza atterra,
D'un
popol di formiche i dolci alberghi,
Cavati
in molle gleba
Con
gran lavoro, e l'opre
E
le ricchezze ch'adunate a prova
Con
lungo affaticar l'assidua gente
Avea
provvidamente al tempo estivo,
Schiaccia,
diserta e copre
In
in punto; così d'alto piombando,
Dall'utero
tonante
Scagliata
al ciel profondo,
Di
ceneri e di pomici e di sassi
Notte
e ruina, infusa
Di
bollenti ruscelli,
O
pel montano fianco
Furiosa
tra l'erba
Di
liquefatti massi
E
di metalli e d'infocata arena
Scendendo
immensa piena,
Le
cittadi che il mar là su l'estremo
Lido
aspergea, confuse
E
infranse e ricoperse
In
pochi istanti: onde su quelle or pasce
La
capra, e città nove
sorgon
dall'altra banda, a cui sgabello
Son
le sepolte, e le prostrate mura
L'arduo
monte al suo piè quasi calpesta.
Non
ha natura al seme
Dell'uom
più stima o cura
Che
alla formica: e se più rara in quello
Che
nell'altra è la strage,
Non
avvien ciò d'altronde
Fuor
che l'uom sue prosapie ha men feconde.
Ben
mille ed ottocento
Anni
varcàr poi che spariro, oppressi
Dall'ignea
forza, i popolati seggi,
E
il villanello intento
Ai
vigneti, che a stento in questi campi
Nutre
la morta zolla e incenerita,
Ancor
leva lo sguardo
Sospettoso
alla vetta
Fatal,
che nulla mai fatta più mite
Ancor
siede tremenda, ancor minaccia
A
lui strage ed ai figli ed agli averi
Lor
poverelli. E spesso
Il
meschino in sul tetto
Dell'ostel
villereccio, alla vagante
Aura
giacendo tutta notte insonne,
E
balzando più volte, esplora il corso
Del
temuto bollor, che si riversa
Dall'inesausto
grembo
Su
l'arenoso dorso, a cui riluce
Di
Capri la marina
E
di Napoli il porto e Mergellina.
E
se appressar lo vede, o se nel cupo
Del
domestico pozzo ode mai l'acqua
Fervendo
gorgogliar, desta i figliuoli,
Desta
la moglie in fretta, e via, con quanto
Di
lor cose rapir posson, fuggendo,
Vede
lontan l'usato
Suo
nido, e il piccol campo,
Che
gli fu dalla fame unico schermo,
Preda
al flutto rovente,
Che
crepitando giunge, e inesorato
Durabilmente
sovra quei si piega.
Torna
al celeste raggio
Dopo
l'antica obblivion l'estinta
Pompei,
come sepolto
Scheletro,
cui di terra
Avarizia
o pietà rende all'aperto;
E
dal deserto foro
Diritto
infra le file
Dei
mozzi colonnati il peregrino
Lunge
contempla il bipartito giogo
E
la cresta fumante,
Che
alla sparsa ruina ancor minaccia.
E
nell'orror della secreta notte
Per
li vacui teatri,
Per
li templi deformi e per le rotte
Case,
ove i parti il pipistrello asconde,
Come
sinistra face
Che
per voti palagi atra s'aggiri,
Corre
il baglior della funerea lava,
Che
di lontan per l'ombre
Rosseggia
e i lochi intorno intorno tinge.
Così,
dell'uomo ignara e dell'etadi
Ch'ei
chiama antiche, e del seguir che fanno
Dopo
gli avi i nepoti,
Sta
natura ognor verde, anzi procede
Per
sì lungo cammino
Che
sembra star. Caggiono i regni intanto,
Passan
genti e linguaggi: ella nol vede:
E
l'uom d'eternità s'arroga il vanto.
E
tu, lenta ginestra,
Che
di selve odorate
Queste
campagne dispogliate adorni,
Anche
tu presto alla crudel possanza
Soccomberai
del sotterraneo foco,
Che
ritornando al loco
Già
noto, stenderà l'avaro lembo
Su
tue molli foreste. E piegherai
Sotto
il fascio mortal non renitente
Il
tuo capo innocente:
Ma
non piegato insino allora indarno
Codardamente
supplicando innanzi
Al
futuro oppressor; ma non eretto
Con
forsennato orgoglio inver le stelle,
Né
sul deserto, dove
E
la sede e i natali
Non
per voler ma per fortuna avesti;
Ma
più saggia, ma tanto
Meno
inferma dell'uom, quanto le frali
Tue
stirpi non credesti
O
dal fato o da te fatte immortali.
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