Stefane
Mallarmè
(1842-1898)
Poeta simbolista francese. La lettura delle poesie di Baudelaire gli rivelò la sua vocazione di poeta. Stabilitosi per un breve periodo a Londra, al rientro in Francia si dedicò all’insegnamento e condusse vita ritirata. Le prime poesie: Il suonatore, Le finestre,L’azzurro, Brezza marina, rivelano il poeta intento a cogliere l’intima essenza delle cose, in un costante sforzo di interpretazione dei simboli che la natura offre. Nel 1866 nel Parnasse contemporain erano apparse dieci poesie che avevano fatto conoscere Mallarmé negli ambienti letterari; nella seconda raccolta del Parnasse tre frammenti dell’incompiuto poema Hérodiade, iniziato nel 1864. Nel ’76 comparve L’Après-midi d’un faune che segnò il passaggio al regno assoluto della parola intesa come pura musicalità.
APPARIZIONE
La luna s’attristava. Serafini piangenti,
L’archetto alzato, in sogno, dalle viole morenti
Traevan, nella calma di vaporosi fiori,
Bianchi singhiozzi a petali dagli azzurri pallori.
-Era quel santo giorno del nostro primo bacio.
La fantasia, martirio cui da sempre soggiaccio,
S’inebriava sapiente al profumo di tristezza
Che pur senza rimpianto lascia e senza amarezza
La vendemmia d’un sogno al cuore che l’ha colto.
Dunque erravo, alle vecchie pietre l’occhio raccolto,
Quando per via, col sole sui capelli splendente,
E nella sera, tu m’apparisti ridente,
Ed io vidi la fata dal cappuccio di luce
Che un tempo sui miei sonni di fanciullo felice
Già passava, lasciando, dalle sue mani belle,
Nevicar bianchi fiori di profumate stelle.
LE FINESTRE
Stanco del triste ospizio e del fetore oscuro
Che sale tra il biancore banale delle tende
Verso il gran crocifisso tediato al nudo muro,
Sornione un vecchio dorso vi raddrizza il morente:
Trascina il pelo bianco e l’ossa magre, lento,
Alle vetrate che un raggio chiaro indora,
Meno per riscaldare il suo disfacimento
Che per vedere il sole sopra le piere ancora.
E la bocca, febbrile e d’azzurro assetata,
(Essa così aspirava, giovane, il suo tesoro,
Un corpo verginale e d’allora) ha lordato
D’un lungo amaro bacio il caldo vetro d’oro.
Ebbro, vive, ed oblia la condanna del letto,
L’orologio, la tosse, le fiale, l’ora estrema,
E allorquando la sera sanguina sopra il tetto,
Con l’occhio all’orizzonte, nella luce serena,
Vede galere d’oro, splendide come cigni,
Dormire sopra un fiume di porpora e d’essenze,
Cullando il fulvo e ricco lampo dei lor profili,
Ricolme di ricordo, di vasta indifferenza!
Così, colto da nausea dell’uomo, anima dura,
Che s’imbraga felice, per gli appetiti soli
Mangiando, ed ostinato cerca questa lordura
Per offrirla alla donna che gli allatta figliuoli,
Io fuggo e mi attacco a tutte le vetrate
Dove si volge il dorso alla vita e al destino,
E nel vetro, lavato dall’eterne rugiade,
Che l’Infinito indora col suo casto mattino,
Mi contemplo e mi vedo angelo! E muoio, e torno
-Che il cristallo sia l’arte o la mistica ebbrezza-
A nascer, col mio sogno diadema al capo intorno,
Dove, in cieli anteriori, fiorisce la Bellezza.
Ma ahimè il Quaggiù impera: fino a questo sicuro
Rifugio esso perviene talora a nausearmi,
E la Stupidità, col suo vomito impuro,
Mi fa turar le nari innanzi ai cieli calmi.
Non tenteremo, o Me che sai amare pene,
D’infrangere il cristallo cui insulta l’Averno,
E di fuggire infine, mie ali senza penne,
A volo-con il rischio di cadere in eterno?
BREZZA MARINA
La carne è triste, ahimè! E ho letto tutti i libri.
Fuggire là, fuggire! Io sento uccelli ebbri
D’esistere tra cieli e ignorate spume.
O notti! Né il chiarore deserto del mio lume
Sulla pagina vuota che il candore difende,
Riterrà questo cuore che al mare si protende,
Né la giovane donna che allatta ad una culla,
Né antichi parchi a specchio d’occhi pensosi, nulla.
Io partirò! Veliero dall’alta alberatura,
Salpa l’ancora verso un’esotica natura!
Un Tedio, desolato dalle speranze inani,
Crede ancora all’addio supremo delle mani!
E questi alberi forse, amici alle tempeste,
Sono quelli perduti che il vento adesso investe,
Perduti, senza vele, né verdi isole ormai…
Ma tu, mio cuore, ascolta cantare i marinai!
L’AZZURRO
Del sempiterno azzurro la serena ironia
Perséguita, indolente e bella come i fiori,
Il poeta impotente di genio e di follia
Attraverso un deserto sterile di Dolori.
Fuggendo, gli occhi chiusi, io lo sento che scruta
Intensamente, come un rimorso atterrante,
L’anima vuota. Dove fuggire? E quale cupa
Notte gettare a brani sul suo spregio straziante?
Nebbie, salite! Ceneri e monotoni veli
Versate, ad annegare questi autunni fangosi,
Lunghi cenci di bruma per i lividi cieli
Ed alzate soffitti immensi e silenziosi!
E tu, esci dai morti stagni letei e porta
Con te la verde melma e i pallidi canneti,
Caro Tedio, per chiudere con una mano accorta
I grandi buchi azzurri degli uccelli crudeli.
Ed ancora! Che senza sosta i tristi camini
Fùmino, e di caligine una prigione errante
Estingua nell’orrore dei suoi neri confini
Il sole ormai morente giallastro all’orizzonte!
-Il cielo è morto.- A te, materia, accorro! Dammi
L’oblio dell’Ideale crudele e del Peccato:
Questo martire viene a divider lo strame
Dove il gregge degli uomini felice è coricato.
Io voglio, poiché infine il mio cervello, vuoto
Come il vaso d’unguento gettato lungo il muro,
Più non sa agghindare il pensiero stentato,
Lugubre sbadigliare verso un trapasso oscuro…
Invano! Ecco trionfa l’Azzurro nella gloria
Delle campane. Anima, ecco, voce diventa
Per più farci paura con malvagia vittoria,
Ed esce azzurro angelus dal metallo vivente!
Si espande tra la nebbia, antico ed attraversa
La tua agonia nativa, come un gladio sicuro:
Dove andare, in rivolta inutile e perversa?
Mia ossessione. Azzurro! Azzurro! Azzurro! Azzurro!
SOSPIRO
La mia anima sale, o placida sorella,
Al cielo errante della tua angelica pupilla
E alla tua fronte, dove, giuncato di rossore,
Sogna un autunno, come nell’antico pallore
D’un parco un getto d’aqua sospira su all’Azzurro!
-Verso il tenero Azzurro d’Ottobre mite e puro
Che guarda in grandi vasche la sua malinconia
E lascia, su acque morte, dove, fulva agonia
Le foglie errano al vento tracciando un freddo viaggio,
Il sole trascinarsi giallo col lungo raggio.
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