Giovanni
Pascoli
Nasce
a San Mauro di Romagna nel 1855 e muore nel 1912. Maggiore della triade con
Carducci e D’Annunzio. Poeta all’insegna dell’esaltazione dei più nobili
sentimenti umani, fratellanza, bontà, amore verso le cose e le creature più
umili; molto toccato dall’assassinio del padre, da bambino e l’ingiusta
prigionia per l’attentato di re Umberto. Famoso per averci indicato la via del
“fanciullino” che è in noi, pubblica: Myricae,
i componimenti de I primi poemetti e i
Canti di Castelvecchio. Dalla lenta
involuzione nascono i Poemi italici, i
Poemi nuovi e Il Convivio. In lingua latina descrive la vita misteriosa e
crepuscolare dei primi cristiani nei Carmina.
Seguono Pensieri e discorsi.
IL
GIORNO DEI MORTI
Io
vedo (come è questo giorno, oscuro!),
vedo
nel cuore, vedo un camposanto
con
un fosco cipresso alto sul muro.
E
quel cipresso fumido si scaglia
allo
scirocco: a ora a ora in pianto
sciogliesi
l'infinita nuvolaglia.
O
casa di mia gente, unica e mesta,
o
casa di mio padre, unica e muta,
dove
l'inonda e muove la tempesta;
o
camposanto che sì crudi inverni
hai
per mia madre gracile e sparuta,
oggi
ti vedo tutto sempiterni
e
crisantemi. A ogni croce roggia
pende
come abbracciata una ghirlanda
donde
gocciano lagrime di pioggia.
Sibila
tra la festa lagrimosa
una
folata, e tutto agita e sbanda.
Sazio
ogni morto, di memorie, posa.
Non
i miei morti. Stretti tutti insieme,
insieme
tutta la famiglia morta,
sotto
il cipresso fumido che geme,
stretti
così come altre sere al foco
(urtava,
come un povero, alla porta
il
tramontano con brontolìo roco),
piangono.
La pupilla umida e pia
ricerca
gli altri visi a uno a uno
e
forma un'altra lagrima per via.
Piangono,
e quando un grido ch'esce stretto
in
un sospiro, mormora, Nessuno! . . .
cupo
rompe un singulto lor dal petto.
Levano
bianche mani a bianchi volti,
non
altri, udendo il pianto disusato,
sollevi
il capo attonito ed ascolti.
Posa
ogni morto; e nel suo sonno culla
qualche
figlio de' figli, ancor non nato.
Nessuno!
i morti miei gemono: nulla!
-
O miei fratelli! - dice Margherita,
la
pia fanciulla che sotterra, al verno,
si
risvegliò dal sogno della vita:
-
o miei fratelli, che bevete ancora
la
luce, a cui mi mancano in eterno
gli
occhi, assetati della dolce aurora;
o
miei fratelli! nella notte oscura,
quando
il silenzio v'opprimeva, e vana
l'ombra
formicolava di paura;
io
veniva leggiera al vostro letto;
Dormite!
vi dicea soave e piana:
voi
dormivate con le braccia al petto.
E
ora, io tremo nella bara sola;
il
dolce sonno ora perdei per sempre
io,
senza un bacio, senza una parola.
E
voi, fratelli, o miei minori, nulla! . . .
voi
che cresceste, mentre qui, per sempre,
io
son rimasta timida fanciulla.
Venite,
intanto che la pioggia tace,
se
vi fui madre e vergine sorella:
ditemi:
Margherita, dormi in pace.
Ch'io
l'oda il suono della vostra voce
ora
che più non romba la procella:
io
dormirò con le mie braccia in croce.
Nessuno!-
Dice; e si rinnova il pianto,
e
scroscia l'acqua: un impeto di vento
squassa
il cipresso e corre il camposanto.
-
O figli - geme il padre in mezzo al nero
fischiar
dell'acqua - o figli che non sento
più
da tanti anni! un altro cimitero
forse
v'accolse e forse voi chiamate
la
vostra mamma, nudi abbrividendo
sotto
le nere sibilanti acquate.
E
voi le braccia dall'asil lontano
a
me tendete, siccome io le tendo,
figli,
a voi, disperatamente invano.
O
figli, figli! vi vedessi io mai!
io
vorrei dirvi che in quel solo istante
per
un'intera eternità v'amai.
In
quel minuto avanti che morissi,
portai
la mano al capo sanguinante,
e
tutti, o figli miei, vi benedissi.
Io
gettai un grido in quel minuto, e poi
mi
pianse il cuore: come pianse e pianse!
e
quel grido e quel pianto era per voi.
Oh!
le parole mute ed infinite
che
dissi! con qual mai strappo si franse
la
vita viva delle vostre vite.
Serba
la madre ai poveri miei figli:
non
manchi loro il pane mai, né il tetto,
né
chi li aiuti, né chi li consigli.
Un
padre, o Dio, che muore ucciso, ascolta:
aggiungi
alla lor vita, o benedetto,
quella
che un uomo, non so chi, m'ha tolta.
Perdona
all'uomo, che non so; perdona:
se
non ha figli, egli non sa, buon Dio . . .
e
se ha figlioli, in nome lor perdona.
Che
sia felice; fagli le vie piane;
dagli
oro e nome; dagli anche l'oblio;
tutto:
ma i figli miei mangino il pane.
Così
dissi in quel lampo senza fine;
Vi
chiamai, muto, esangue, a uno a uno,
dalla
più grandicella alle piccine.
Spariva
a gli occhi il mondo fatto vano.
In
tutto il mondo più non era alcuno.
Udii
voi soli singhiozzar lontano. -
Dice;
e più triste si rinnova il pianto;
più
stridula, più gelida, più scura
scroscia
la pioggia dentro il camposanto.
-
No, babbo, vive, vivono - Chi parla?
Voce
velata dalla sepoltura,
voce
nuova, eppur nota ad ascoltarla,
o
mio Luigi, o anima compagna!
come
ti vedo abbrividire al vento
che
ti percuote, all'acqua che ti bagna!
come
mutato! sembra che tu sia
un
bimbo ignudo, pieno di sgomento,
che
chieda, a notte, al canto della via.
-
Vivono, vive. Non udite in questa
notte
una voce querula, argentina,
portata
sino a noi dalla tempesta?
È
la sorella che morì lontano,
che
in questa notte, povera bambina,
chiama
chiama dal poggio di Sogliano.
Chiama.
Oh! poterle carezzare i biondi
riccioli
qui, tra noi; fuori del nero
chiostro,
de' sotterranei profondi!
Un'altra
voce tu, fratello, ascolta;
dolce,
triste, lontana; il tuo Ruggiero;
in
cui, babbo, moristi un'altra volta.
Parlano
i morti. Non è spento il cuore
né
chiusi gli occhi a chi morì cercando,
a
chi non pianse tutto il suo dolore.
E
or per quanto stridula di vento
ombra
ne dividesse, a quando a quando
udrei,
come da vivo, il tuo lamento,
o
mio Giovanni, che vegliai, che ressi,
che
curai, che difesi, umile e buono,
e
morii senza che rivedessi!
Avessi
tu provato di quell'ora
ultima
il freddo, e or quest'abbandono,
gemendo
a noi ti volgeresti ancora.-
-
Ma se vivete, perché, morti cuori,
solo
è la nostra tomba illacrimata,
solo
la nostra croce è senza fiori ?-
Così
singhiozza Giacomo: poi geme:
-
Quando sola restò la nidïata,
Iddio
lo sa, come vi crebbi insieme:
se
con pia legge l'umili vivande
tra
voi divisi, e destinai de' pani
il
più piccolo a me ch'ero il più grande;
se
ribevvi le lagrime ribelli
per
non far voi pensosi del domani,
se
il pianto piansi in me di sei fratelli;
se
al sibilar di questi truci venti,
al
rombar di quest'acque, io suscitava
la
buona fiamma d'eriche e sarmenti;
e
io, quando vedea rosso ogni viso,
e
più rossi i più piccoli, tremava
sì,
del mio freddo, ma con un sorriso.
Ma
non per me, non per me piango; io piango
per
questa madre che, tra l'acqua, spera,
per
questo padre che desìa, nel fango;
per
questi santi, o fratel mio, che vivi;
di
cui morendo io ti dicea . . . ma era
grossa
la lingua e forse non udivi.-
Io
vedo, vedo, vedo un camposanto,
oscura
cosa nella notte oscura:
odo
quel pianto della tomba, pianto
d'occhi
lasciati dalla morte attenti,
pianto
di cuori cui la sepoltura lasciò,
ma
solo di dolor, viventi.
L'odo:
ora scorre libero: nessuno
può
risvegliarsi, tanto è notte, il vento
è
così forte, il cielo è così bruno.
Nessuno
udrà. La povera famiglia
può
piangere. Nessuno, al suo lamento,
può
dire: Altro è mio figlio! altra è mia figlia!
Aspettano.
Oh! che notte di tempesta
piena
d'un tremulo ululo ferino!
Non
s'ode per le vie suono di pesta.
Uomini
e fiere, in casolari e tane,
tacciono.
Tutto è chiuso. Un contadino
socchiude
l'uscio del tugurio al cane.
Piangono.
Io vedo, vedo, vedo. Stanno
in
cerchio, avvolti dall'assidua romba.
Aspetteranno,
ancora, aspetteranno.
I
figli morti stanno avvinti al padre
invendicato.
Siede in una tomba.
(io
vedo, io vedo) in mezzo a lor, mia madre.
Solleva
ai morti, consolando, gli occhi,
e
poi furtiva esplora l'ombra. Culla
due
bimbi morti sopra i suoi ginocchi.
Li
culla e piange con quelli occhi suoi,
piange
per gli altri morti, e per se nulla,
e
piange, o dolce madre! anche per noi;
e
dice:- Forse non verranno. Ebbene,
pietà!
Le tue due figlie, o sconsolato,
dicono,
ora, in ginocchio, un po' di bene.
Forse
un corredo cuciono, che preme:
per
altri: tutto il giorno hanno agucchiato,
hanno
agucchiato sospirando insieme.
E
solo a notte i poveri occhi smorti
hanno
levato, a un gemer di campane;
hanno
pensato, invidïando, ai morti.
Ora,
in ginocchio, pregano Maria
al
suon delle campane, alte, lontane,
per
chi qui giunse, e per chi resta in via
là;
per chi vaga in mezzo alla tempesta,
per
chi cammina, cammina, cammina,
e
non ha pietra ove posar la testa.
Pietà
pei figli che tu benedivi!
In
questa notte che non mai declina,
orate
requie, o figli morti, ai vivi!-
O
madre! il cielo si riversa in pianto
oscuramente
sopra il camposanto.
Myricae
arbusta
iuvant humilesque myricae
DALL'ALBA
AL TRAMONTO
I
ALBA
FESTIVA
Che
hanno le campane,
che
squillano vicine,
che
ronzano lontane?
E'
un inno senza fine,
or
d'oro, ora d'argento,
nell'ombre
mattutine.
Con
un dondolio lento
implori,
o voce d'oro,
nel
cielo sonnolento.
Tra
il cantico sonoro
il
tuo tintinno squilla
voce
argentina - Adoro,
adoro
- Dilla, dilla,
la
nota d'oro - L'onda
pende
dal ciel, tranquilla.
Ma
voce più profonda
sotto
l'amor rimbomba,
par
che al desìo risponda:
la
voce della tomba.
II
SPERANZE
E MEMORIE
Paranzelle
in alto mare
bianche
bianche,
io
vedeva palpitare
come
stanche:
o
speranze, ale di sogni
per
il mare!
Volgo
gli occhi; e credo in cielo
rivedere
paranzelle
sotto un velo,
nere
nere:
o
memorie, ombre di sogni
per
il cielo!
III
SCALPITIO
Si
sente un galoppo lontano
(è
la . . . ?),
che
viene, che corre nel piano
con
tremula rapidità.
Un
piano deserto, infinito;
tutto
ampio, tutt'arido, eguale:
qualche
ombra d'uccello smarrito,
che
scivola simile a strale:
non
altro. Essi fuggono via
da
qualche remoto sfacelo;
ma
quale, ma dove egli sia,
non
sa né la terra né il cielo.
Si
sente un galoppo lontano
più
forte,
che
viene, che corre nel piano:
la
Morte! la Morte! la Morte!
IV
IL
MORTICINO
Non
è Pasqua d'ovo?
Per
oggi contai
di
darteli, i piedi.
È
Pasqua: non sai?
È
Pasqua: non vedi
il
cercine novo?
Andiamoci,
a mimmi,
lontano
lontano...
Dan
don... Oh! ma dimmi:
non
vedi ch'ho in mano
il
cercine novo,
le
scarpe d'avvio?
Sei
morto: non vedi,
mio
piccolo cieco!
Ma
mettile ai piedi,
ma
portale teco,
ma
diglielo a Dio,
che
mamma ha filato
sei
notti e sei dì,
sudato,
vegliato,
per
farti, oh! così!
le
scarpe d'avvio!
V
IL
ROSICCHIOLO
Per
te l'ha serbato, soltanto
per
te, povero angiolo; ed eccolo
o
pianto!
lo
vedi? un rosicchiolo secco.
Moriva
sul letto di strame;
tu,
bimbo, dormivi sicuro.
Che
pianto! che fame!
ma
c'era un rosicchiolo duro.
Ma
ella guardava lunghe ore,
guardava
il suo bimbo, e morì,
di
pianto, di fame, d'amore;
e...
guarda! il rosicchiolo è qui.
VI
ALLORA
Allora...in
un tempo assai lunge
felice
fui molto; non ora:
ma
quanta dolcezza mi giunge
da
tanta dolcezza d'allora!
Quell'anno!
per anni che poi
fuggirono,
che fuggiranno,
non
puoi, mio pensiero, non puoi,
portare
con te, che quell'anno!
Un
giorno fu quello, ch'è senza
compagno,
ch'è senza ritorno;
la
vita fu vana parvenza
sì
prima sì dopo quel giorno!
Un
punto!... così passeggero,
che
in vero passò non raggiunto,
ma
bello così, che molto ero
felice,
felice, quel punto!
VII
PATRIA
Sogno
d'un dì d'estate.
Quanto
scampanellare
tremulo
di cicale!
Stridule
pel filare
moveva
il maestrale
le
foglie accartocciate.
Scendea
tra gli olmi il sole
in
fascie polverose:
erano
in ciel due sole
nuvole,
tenui, rose:
due
bianche spennellate
in
tutto il ciel turchino.
Siepi
di melograno,
fratte
di tamerice,
il
palpito lontano
d'una
trebbïatrice,
l'angelus
argentino...
dov'ero?
Le campane
mi
dissero dov'ero,
piangendo,
mentre un cane
latrava
al forestiero,
che
andava a capo chino.
VIII
IL
NUNZIO
Un
murmure, un rombo....
Son
solo: ho la testa
confusa
di tetri
pensieri.
Mi desta
quel
murmure ai vetri.
Che
brontoli, o bombo?
che
nuove mi porti?
E
cadono l'ore
giú
giù, con un lento
gocciare.
Nel cuore
lontane
risento
parole
di morti...
Che
brontoli, o bombo?
che
avviene nel mondo?
Silenzio
infinito.
Ma
insiste profondo,
solingo
smarrito,
quel
lugubre rombo.
IX
LA
CUCITRICE
L'alba
per la valle nera
sparpagliò
le greggi bianche:
tornano
ora nella sera
e
s'arrampicano stanche:
una
stella le conduce.
Torna
via dalla maestra
la
covata, e passa lenta:
c'è
del biondo alla finestra
tra
un basilico e una menta:
è
Maria che cuce e cuce.
Per
chi cuci e per che cosa?
un
lenzuolo ? un bianco velo ?
Tutto
il cielo è color rosa,
rosa
e oro, e tutto il cielo
sulla
testa le riluce.
Alza
gli occhi dal lavoro:
una
lagrima? un sorriso?
Sotto
il cielo rosa e oro,
chini
gli occhi, chino il viso,
ella
cuce, cuce, cuce.
X
SERA
FESTIVA
O
mamma, o mammina, hai stirato
la
nuova camicia di lino ?
Non
c'era laggiù tra il bucato,
sul
bossolo o sul biancospino.
Su
gli occhi tu tieni le mani. . .
Perchè?
non lo sai che domani ... ?
din
don dan, din don dan.
Si
parlano i bianchi villaggi
cantando
in un lume di rosa:
dall'ombra
de' monti selvaggi
si
sente una romba festosa.
Tu
tieni a gli orecchi le mani...
tu
piangi; ed è festa domani. .
din
don dan, din don dan.
Tu
pensi . . . oh! ricordo: la pieve . . .
quanti
anni ora sono ? una sera . .
il
bimbo era freddo, di neve;
il
bimbo era bianco, di cera:
allora
sonò la campana
(perchè
non pareva lontana ?)
din
don dan, din don dan.
Sonavano
a festa, come ora,
per
l'angiolo; il nuovo angioletto
nel
cielo volava a quell'ora;
ma
tu lo volevi al tuo petto,
con
noi, nella piccola zana:
gridavi;
e lassù la campana. . .
din
don dan, din don dan.
RICORDI
I
ROMAGNA
a
Severino
Sempre
un villaggio, sempre una campagna
mi
ride al cuore (o piange), Severino:
il
paese ove, andando, ci accompagna
l'azzurra
vision di San Marino:
sempre
mi torna al cuore il mio paese
cui
regnarono Guidi e Malatesta,
cui
tenne pure il Passator cortese,
re
della strada, re della foresta.
Là
nelle stoppie dove singhiozzando
va
la tacchina con l'altrui covata,
presso
gli stagni lustreggianti, quando
lenta
vi guazza l'anatra iridata,
oh!
fossi io teco; e perderci nel verde,
e
di tra gli olmi, nido alle ghiandaie,
gettarci
l'urlo che lungi si perde
dentro
il meridiano ozio dell'aie;
mentre
il villano pone dalle spalle
gobbe
la ronca e afferra la scodella,
e
'1 bue rumina nelle opache stalle
la
sua laborïosa lupinella.
Da'
borghi sparsi le campane in tanto
si
rincorron coi lor gridi argentini:
chiamano
al rezzo, alla quiete, al santo
desco
fiorito d'occhi di bambini.
Già
m'accoglieva in quelle ore bruciate
sotto
ombrello di trine una mimosa,
che
fioria la mia casa ai dì d'estate
co'
suoi pennacchi di color di rosa;
e
s'abbracciava per lo sgretolato
muro
un folto rosaio a un gelsomino;
guardava
il tutto un pioppo alto e slanciato,
chiassoso
a giorni come un biricchino.
Era
il mio nido: dove immobilmente,
io
galoppava con Guidon Selvaggio
e
con Astolfo; o mi vedea presente
l'imperatore
nell'eremitaggio.
E
mentre aereo mi poneva in via
con
l'ippogrifo pel sognato alone,
o
risonava nella stanza mia
muta
il dettare di Napoleone;
udia
tra i fieni allor allor falciati
da'
grilli il verso che perpetuo trema,
udiva
dalle rane dei fossati
un
lungo interminabile poema.
E
lunghi, e interminati, erano quelli
ch'io
meditai, mirabili a sognare:
stormir
di frondi, cinguettio d'uccelli,
risa
di donne, strepito di mare.
Ma
da quel nido, rondini tardive,
tutti
tutti migrammo un giorno nero;
io,
la mia patria or è dove si vive:
gli
altri son poco lungi; in cimitero.
Così
più non verrò per la calura
tra
que' tuoi polverosi biancospini,
ch'io
non ritrovi nella mia verzura
del
cuculo ozïoso i piccolini,
Romagna
solatia, dolce paese,
cui
regnarono Guidi e Malatesta;
cui
tenne pure il Passator cortese,
re
della strada, re della foresta.
II
ANNIVERSARIO
Sono
più di trent'anni e di queste ore,
mamma,
tu con dolor m'hai partorito;
ed
il mio nuovo piccolo vagito
t'addolorava
più del tuo dolore.
Poi
tra il dolore sempre ed il timore,
o
dolce madre, m'hai di te nutrito:
e
quando fui del corpo tuo vestito,
quand'ebbi
nel mio cuor tutto il tuo cuore;
allor
sei morta; e son vent'anni: un giorno!
già
gli occhi materni io penso a vuoto;
il
caro viso già mi si scolora,
mamma,
e più non ti so. Ma nel soggiorno
freddo
de' morti, nel tuo sogno immoto,
tu
m'accarezzi i riccioli d'allora.
31
di dicembre 1889.
III
RIO
SALTO
Lo
so: non era nella valle fonda
suon
che s'udia di palafreni andanti:
era
l'acqua che giù dalle stillanti
tegole
a furia percotea la gronda.
Pur
via e via per l'infinita sponda
passar
vedevo i cavalieri erranti;
scorgevo
le corazze luccicanti,
scorgevo
l'ombra galoppar sull'onda.
Cessato
il vento poi, non di galoppi
il
suono udivo, né vedea tremando
fughe
remote al dubitoso lume;
ma
voi solo vedevo, amici pioppi!
Brusivano
soave tentennando
lungo
la sponda del mio dolce fiume.
IV
IL
MANIERO
Te
sovente, o tra boschi arduo maniero,
popolai
di baroni e di vassalli,
mentre
i falchetti udia squittio su' gialli
merli
e radendo il baluardo nero.
Pei
vetri un lume trascorrea leggiero,
e
nitrivano fervidi i cavalli:
a
uno squillo che uscia giù dalle valli,
apria
le imposte il maggiordomo austero;
e
nel fosso stridea la fragorosa
saracinesca.
Or tu, canto divino,
sceso
con l'ombre nel mio cuor cadenti,
dove
sei? Di tramonti, ora, pensosa,
là
sur un torvo giogo d'Apennino
qualch'elce
nera lo ripete ai venti.
V
IL
BOSCO
O
vecchio bosco pieno d'albatrelli,
che
sai di funghi e spiri la malìa,
cui
tutto io già scampanellare udia
di
cicale invisibili e d'uccelli:
in
te vivono i fauni ridarelli
ch'hanno
le sussurranti aure in balìa;
vive
la ninfa, e i passi lenti spia,
bionda
tra le interrotte ombre i capelli.
Di
ninfe albeggia in mezzo alla ramaglia
or
sì or no, che se il desio le vinca,
l'occhio
alcuna ne attinge, e il sol le bacia.
Dileguano;
e pur viva è la boscaglia,
viva
sempre ne' fior della pervinca
e
nelle grandi ciocche dell'acacia.
VI
IL
FONTE
Mentre
con lieve strepito perenne
geme
tra il caprifoglio una fontana,
trema
un trotto tranquillo, e s'allontana
per
le fatate rilucenti Ardenne.
Qui
pontò i piedi e s'alzò sulle penne
quell'Ippogrifo,
qui stallò l'Alfana:
Brigliadoro
dall'India Sericana
in
questo trebbio il lungo error sostenne:
che
qui l'abbeverava il paladino,
e
meditava al mormorio del fonte
senza
piegar la ferrea persona:
poi
seguì la sua corsa e il suo destino;
così
che intorno per la valle e il monte
ancor
la notte il trotto ne rintrona.
VII
ANNIVERSARIO
Sappi-e
forse lo sai, nel camposanto-
la
bimba dalle lunghe anella d'oro,
e
l'altra che fu l'ultimo tuo pianto,
sappi
ch'io le raccolsi e che le adoro.
Per
lor ripresi il mio coraggio affranto,
e
mi detersi l'anima per loro:
hanno
un tetto, hanno un nido, ora, mio vanto;
e
l'amor mio le nutre e il mio lavoro.
Non
son felici, sappi, ma serene:
il
lor sorriso ha una tristezza pia:
io
le guardo-o mia sola erma famiglia !-
sempre
a gli occhi sento che mi viene
quella
che ti bagnò nell'agonia
non
terminata lagrima le ciglia.
31
di dicembre 1890.
VIII
I
PUFFINI DELL'ADRIATICO
Tra
cielo e mare (un rigo di carmino
recide
intorno l'acque marezzate)
parlano.
È un'alba cerula d'estate:
non
una randa in tutto quel turchino.
Pur
voci reca il soffio del garbino
con
ozïose e tremule risate.
Sono
i puffini: su le mute ondate
pende
quel chiacchiericcio mattutino.
Sembra
un vociare, per la calma, fioco,
di
marinai, ch'ad ora ad ora giunga
tra
'l fievole sciacquìo della risacca;
quando,
stagliate dentro l'oro e il fuoco,
le
paranzelle in una riga lunga
dondolano
sul mar liscio di lacca.
IX
CAVALLINO
O
bel clivo fiorito Cavallino
ch'io
varcai co' leggiadri eguali a schiera
al
mio bel tempo; chi sa dir se l'era
d'olmo
la tua parlante ombra o di pino?
Era
busso ricciuto o biancospino,
da
cui dorata trasparia la sera?
C'è
un campanile tra una selva nera,
che
canta, bianco, l'inno mattutino?
Non
so: ché quando a te s'appressa il vano
desio,
per entro il cielo fuggitivo
te
vedo incerta visïon fluire.
So
ch'or sembri il paese allor lontano
lontano,
che dal tuo fiorito clivo
io
rimirai nel limpido avvenire.
X
LE
MONACHE Dl SOGLIANO
Dal
profondo geme l'organo
tra
'l fumar de' cerei lento:
c'è
un brusio cupo di femmine
nella
chiesa del convento:
un
vegliardo austero mormora
dall'altar
suoi brevi appelli:
dietro
questi s'acciabattano
delle
donne i ritornelli.
Ma
di mezzo a un lungo gemito,
da
invisibile cortina,
s'alza
a vol secura ed agile
una
voce di bambina;
e
dintorno a questa ronzano,
tutte
a volo, unite e strette,
e
la seguono e rincorrono,
voci
d'altre giovinette.
Per
noi prega, o santa Vergine,
per
noi prega, o Madre pia;
per
noi prega, esse ripetono,
o
Maria! Maria! Maria!
Quali
note! Par che tinnino
nell'infrangersi
del cuore:
paion
umide di lagrime,
paion
ebbre di dolore.
Oh!
qual colpa macchiò l'anima
di
codeste prigioniere?
qual
dolor poté precorrervi
la
fiorita del piacere?
Queste
bimbe, queste vergini
che
offesero Dio santo,
che
perdòno ne sospirano
con
sì lungo inno di pianto?
Manda
l'organo i suoi gemiti
tra'l
fumar de' cerei lento:
di
lontane plaghe sembrano
cupe
e fredde onde di vento...
Dalle
plaghe inaccessibili
cupo
e freddo il vento romba:
già
sottentra ai lunghi gemiti
il
silenzio della tomba.
XI
IL
SANTUARIO
Come
un'arca d'aromi oltremarini,
il
santuario, a mezzo la scogliera,
esala
ancora l'inno e la preghiera
tra
i lunghi intercolunnii de' pini;
e
trema ancor de' palpiti divini
che
l'hanno scosso nella dolce sera,
quando
dalla grand'abside severa
uscia
l'incenso in fiocchi cilestrini.
S'incurva
in una luminosa arcata
il
ciel sovr'esso: alle colline estreme
il
Carro e fermo e spia l'ombra che sale.
Sale
con l'ombra il suon d'una cascata
che
grave nel silenzio sacro geme
con
un sospiro eternamente uguale.
XII
ANNIVERSARIO
Già
li vedevo gli occhi tuoi, soavi
seguirmi
sempre per il mio cammino,
chinarsi
mesti sul mio capo chino,
volgersi,
al mio dubbiar, dubbiosi e gravi.
Come
col dolor tuo mi consolavi,
come,
o cuore vivente oltre il destino!
come
al tuo collo ti tornai bambino
piangendo
il pianto che su me versavi!
Or
che rivivo alfine, or che trovai
ah!
le due parti del tuo cuore infranto,
ora
quell'occhio più che mai materno...
No:
tu con gli altri, al freddo, all'acqua, stai,
con
gli altri, solitari in camposanto,
in
questa sera torbida d'inverno.
31
di dicembre 1891.
PENSIERI
I
TRE
VERSI DELL'ASCREO
"Non
di perenni fiumi passar l'onda,
che
tu non preghi volto alla corrente
pura,
e le mani tuffi nella monda
acqua
lucente"
dice
il poeta. E così guarda, o saggio,
tu
nel dolore, cupo fiume errante:
passa,
e le mani reca dal passaggio
sempre
più sante...
II
I
TRE GRAPPOLI
Ha
tre, Giacinto, grappoli la vite.
Bevi
del primo il limpido piacere;
bevi
dell'altro l'oblio breve e mite;
e...
più non bere:
chè
sonno è il terzo, e con lo sguardo acuto
nel
nero sonno vigila, da un canto,
sappi,
il dolore; e alto grida un muto
pianto
già pianto.
III
SAPIENZA
Salì
pensoso la romita altura
ove
ha il suo nido l'aquila e il torrente,
e
centro della lontananza oscura
sta,
sapïente.
Oh!
scruta intorno gl'ignorati abissi:
più
ti va lungi l'occhio del pensiero,
più
presso viene quello che tu fissi:
ombra
e mistero.
IV
CUORE
E CIELO
Nel
cuor dove ogni visïon s'immilla,
e
spazio al cielo ed alla terra avanza,
talor
si spenge un desiderio, e brilla
una
speranza:
come
nel cielo, oceano profondo,
dove
ascendendo il pensier nostro annega,
tramonta
un'Alfa, e pullula dal fondo
cupo
un'Omega.
V
MORTE
E SOLE
Fissa
la morte: costellazïone
lugubre
che in un cielo nero brilla:
breve
parola, chiara visïone:
leggi,
o pupilla.
Non
puoi. Così, se fissi mai l'immoto
astro
nei cieli solitari ardente,
se
guardi il sole, occhio, che vedi ? Un vòto
vortice,
un niente.
VI
PIANTO
Più
bello il fiore cui la pioggia estiva
lascia
una stilla dove il sol si frange;
più
bello il bacio che d'un raggio avviva
occhio
che piange.
VII
CONVIVIO
O
convitato della vita, è l'ora.
Brillino
rossi i calici di vino;
tu
né bramoso più, né sazio ancora,
lascia
il festino.
Splendano
d'aurea luce i lampadari,
fragri
la rosa e il timo dell'Imetto,
sorrida
in cerchio tuttavia di cari
capi
il banchetto:
tu
sorgi e... Triste, su la mensa ingombra,
delle
morenti lampade lo svolo
lugubre
lungo! triste errar nell'ombra,
ultimo,
solo!
VIII
IL
PASSATO
Rivedo
i luoghi dove un giorno ho pianto:
un
sorriso mi sembra ora quel pianto.
Rivedo
i luoghi, dove ho già sorriso...
Oh!
come lacrimoso quel sorriso!
IX
TRA
IL DOLORE E LA GIOIA
Vidi
il mio sogno sopra il monte in cima;
era
una striscia pallida; co' suoi
boschi
d'un verde quale mai né prima
vidi
né poi.
Prima,
il sonante nembo coi velari,
tutto
ascondeva, delle nubi nere:
poi,
tutto il sole disvelò del pari
bello
a vedere.
Ma
quel mio sogno al raggio d'un'aurora
nuova
m'apparve e sparve in un baleno,
che
il ciel non era torbo più né ancora
tutto
sereno.
X
NEL
CUORE UMANO
Non
ammirare, se in un cuor non basso,
cui
tu rivolga a prova, un pungiglione
senti
improvviso: c'è sott'ogni sasso
lo
scorpïone.
Non
ammirare, se in un cuor concesso
al
male, senti a quando a quando un grido
buono,
un palpito santo: ogni cipresso
porta
il suo nido.
CREATURE
I
FIDES
Quando
brillava il vespero vermiglio,
e
il cipresso pareva oro, oro fino,
la
madre disse al piccoletto figlio:
Così
fatto è lassù tutto un giardino.
Il
bimbo dorme, e sogna i rami d'oro,
gli
alberi d'oro, le foreste d'oro;
mentre
il cipresso nella notte nera
scagliasi
al vento, piange alla bufera.
II
CEPPO
È
mezzanotte. Nevica. Alla pieve
suonano
a doppio; suonano l'entrata.
Va
la Madonna bianca tra la neve:
spinge
una porta; l'apre: era accostata.
Entra
nella capanna: la cucina
e
piena d'un sentor di medicina.
Un
bricco al fuoco s'ode borbottare:
piccolo
il ceppo brucia al focolare.
Un
gran silenzio. Sono a messa? Bene.
Gesu
trema; Maria si accosta al fuoco.
Ma
ecco un suono, un rantolo che viene
di
su, sempre più fievole e più roco.
Il
bricco versa e sfrigge: la campana,
col
vento, or s'avvicina, or s'allontana.
La
Madonna, con una mano al cuore,
geme:
Una mamma, figlio mio, che muore!
E
piano piano, col suo bimbo fiso
nel
ceppo, torna all'uscio, apre, s'avvia.
Il
ceppo sbracia e crepita improvviso,
il
bricco versa e sfrigola via via:
quel
rantolo... è finito. O Maria stanca!
bianca
tu passi tra la neve bianca.
Suona
d'intorno il doppio dell'entrata:
voce
velata, malata, sognata.
III
MORTO
Manina
chiusa, che nel sonno grande
stringi
qualcosa, dimmi cosa ci hai!
Cosa
ci ha? cosa ci ha? Vane domande:
quello
che stringe, niuno saprà mai.
Te
l'ha portato l'Angelo, il suo dono:
nel
sonno, sempre lo stringevi, un dono.
La
notte c'era, non c'era il mattino.
Questo
ti resterà. Dormi, bambino.
IV
ORFANO
Lenta
la neve fiocca, fiocca, fiocca.
Senti:
una zana dondola pian piano.
Un
bimbo piange, il piccol dito in bocca;
canta
una vecchia, il mento sulla mano.
La
vecchia canta: Intorno al tuo lettino
c'è
rose e gigli, tutto un bel giardino.
Nel
bel giardino il bimbo s'addormenta.
La
neve fiocca lenta, lenta, lenta.
V
ABBANDONATO
Nella
soffitta è solo, è nudo, muore.
Stille
su stille gemono dal tetto.
Gli
dice il Santo-Ancora un po'; fa' cuore-
Mormora-Il
pane; è tanto che l'aspetto-
L'Angelo
dice-or viene il Salvatore-
Sospira-un
panno pel mio freddo letto-
Maria
dice-È finito il tuo dolore!-
-oh!
mamma io voglio, e dormire al suo petto-
Lagrima
a goccia a goccia la bufera
nella
soffitta. Il Santo veglia, assiso;
l'Angelo
guarda, smorto come cera;
la
Vergine Maria piange un sorriso.
Tace
il bambino, aspetta sino a sera,
all'uscio
guarda, coi grandi occhi, fiso.
La
notte cade, l'ombra si fa nera;
egli
va, desolato, in Paradiso.
LA
CIVETTA
Stavano
neri al lume della luna
gli
erti cipressi, guglie di basalto,
quando
tra l'ombre svolò rapida una
ombra
dall'alto:
orma
sognata d'un volar di piume,
orma
di un soffio molle di velluto,
che
passò l'ombre e scivolò nel lume
pallido
e muto;
ed
i cipressi sul deserto lido
stavano
come un nero colonnato,
rigidi,
ognuno con tra i rami un nido
addormentato.
E
sopra tanta vita addormentata
dentro
i cipressi, in mezzo alla brughiera
sonare,
ecco, una stridula risata
di
fattucchiera:
una
minaccia stridula seguita,
forse,
da brevi pigolii sommessi,
dal
palpitar di tutta quella vita
dentro
i cipressi.
Morte,
che passi per il ciel profondo,
passi
con ali molli come fiato,
con
gli occhi aperti sopra il triste mondo
addormentato;
Morte,
lo squillo acuto del tuo riso
unico
muove l'ombra che ci occulta
silenzïosa,
e, desta all'improvviso
squillo,
sussulta;
e
quando taci, e par che tutto dorma
nel
cipresseto, trema ancora il nido
d'ogni
vivente: ancor, nell'aria, l'orma
c'è
del tuo grido.
LE
PENE DEL POETA
I
I
DUE FUCHI
Tu
poeta, nel torbido universo
t'affisi,
tu per noi lo cogli e chiudi
in
lucida parola e dolce verso;
si
ch'opera è di te ciò che l'uom sente
tra
l'ombre vane, tra gli spettri nudi.
Or
qual n'hai grazia tu presso la gente?
Due
fuchi udii ronzare sotto un moro.
Fanno
queste api quel lor miele (il primo
diceva)
e niente più: beate loro!
E
l'altro: E poi fa afa: troppo timo!
II
IL
CACCIATORE
Frulla
un tratto l'idea nell'aria immota;
canta
nel cielo. Il cacciator la vede,
l'ode;
la segue: il cuor dentro gli nuota.
Se
poi col dardo, come fil di sole
lucido
e retto, bàttesela al piede,
oh
il poeta! gioiva; ora si duole.
Deh!
gola d'oro e occhi di berilli,
piccoletta
del cielo alto sirena,
ecco,
tu più non voli, più non brilli,
più
non canti: e non basti alla mia cena.
III
IL
LAURO
Nell'orto,
a Massa - o blocchi di turchese,
alpi
Apuane ! o lunghi intagli azzurri
nel
celestino, all'orlo del paese!
un
odorato e lucido verziere
pieno
di frulli, pieno di sussurri,
pieno
de' flauti delle capinere.
Nell'aie
acuta la magnolia odora,
lustra
l'arancio popolato d'oro -
io,
quando al Belvedere era l'aurora,
venivo
al piede d'uno snello alloro.
Sorgeva
presso il vecchio muro, presso
il
vecchio busto d'un imperatore,
col
tronco svelto come di cipresso.
Slanciato
avanti, sopra il muro, al sole
dava
la chioma. Intorno era un odore,
sottil,
di vecchio, e forse di vïole.
Io
sognava: una corsa lungo il puro
Frigido,
l'oro di capelli sparsi,
una
fanciulla . . . Ancora al vecchio muro
tremava
il lauro che parea slanciarsi.
Un'alba
- si sentia di due fringuelli
chiaro
il francesco mio: la capinera
già
desta squittinìa di tra i piselli -
tu
più non c'eri, o vergine fugace:
netto
il pedale era tagliato: v'era
quel
vecchio odore e quella vecchia pace:
il
lauro, no. Sarchiava lì vicino
Fiore,
un ragazzo pieno di bontà.
Gli
domandai del lauro; e Fiore, chino
sopra
il sarchiello: Faceva ombra, sa!
E
m'accennavi un campo glauco, o Fiore,
di
cavolo cappuccio e cavolfiore.
IV
LE
FEMMINELLE
E
dice la rosa alba: oh! chi mi svelle?
Son
mesta come un colchico: dal ciocco
tanto
mi germinò di femminelle!
Erano
come punte tenerine
di
sparagio: poi fecero lo stocco;
buttano
anch'esse e s'armano di spine.
Vivono
de' miei fiori color d'alba,
d'alba
rosata; e tu non giovi, o ruta.
Mettono
un boccio: una corolla scialba,
subito
aperta, subito caduta.
L'ULTIMA
PASSEGGIATA
I
ARANO
Al
campo, dove roggio nel filare
qualche
pampano brilla, e dalle fratte
sembra
la nebbia mattinal fumare,
arano:
a lente grida, uno le lente
vacche
spinge; altri semina; un ribatte
le
porche con sua marra pazïente;
ché
il passero saputo in cor già gode,
e
il tutto spia dai rami irti del moro;
e
il pettirosso: nelle siepi s'ode
il
suo sottil tintinno come d'oro.
II
DI
LASSÙ
La
lodola perduta nell'aurora
si
spazia, e di lassù canta alla villa,
che
un fil di fumo qua e là vapora;
di
lassù largamente bruni farsi
i
solchi mira quella sua pupilla
lontana,
e i bianchi bovi a coppie sparsi.
Qualche
zolla nel campo umido e nero
luccica
al sole, netta come specchio:
fa
il villano mannelle in suo pensiero,
e
il canto del cuculo ha nell'orecchio.
III
GALLINE
Al
cader delle foglie, alla massaia
non
piange il vecchio cor, come a noi grami:
che
d'arguti galletti ha piena l'aia;
e
spessi nella pace del mattino
delle
utili galline ode i richiami:
zeppo,
il granaio; il vin canta nel tino.
Cantano
a sera intorno a lei stornelli
le
fiorenti ragazze occhi pensosi,
mentre
il granturco sfogliano, e i monelli
ruzzano
nei cartocci strepitosi.
IV
LAVANDARE
Nel
campo mezzo grigio e mezzo nero
resta
un aratro senza buoi che pare
dimenticato,
tra il vapor leggero.
E
cadenzato dalla gora viene
lo
sciabordare delle lavandare
con
tonfi spessi e lunghe cantilene:
Il
vento soffia e nevica la frasca,
e
tu non torni ancora al tuo paese!
quando
partisti, come son rimasta!
come
l'aratro in mezzo alla maggese.
V
I
DUE BIMBI
I
due bimbi si rizzano: uno, a stento,
indolenzito;
grave, l'altro: il primo
alza
il corbello con un gesto lento;
e
in quel dell'altro fa cader, bel bello,
il
suo tesoro d'accattato fimo:
e
quello va più carico e più snello.
Il
vinto siede, prova un'altra volta
coi
noccioli, li sperpera, li aduna,
e
dice (forse al grande olmo che ascolta?):
E
poi si dica che non ha fortuna!
VI
LA
VIA FERRATA
Tra
gli argini su cui mucche tranquilla-
mente
pascono, bruna si difila
la
via ferrata che lontano brilla;
e
nel cielo di perla dritti, uguali,
con
loro trama delle aeree fila
digradano
in fuggente ordine i pali.
Qual
di gemiti e d'ululi rombando
cresce
e dilegua femminil lamento?
I
fili di metallo a quando a quando
squillano,
immensa arpa sonora, al vento.
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